Siamo abituati ad immaginare le nostre emozioni e i nostri pensieri come processi distinti, separati, lontani: ma è davvero così?
Uno dei dibattiti più accesi all’interno della comunità scientifica è proprio quello tra emozioni e cognizione:
- può esserci emozione senza cognizione?
- viene prima l’una o l’altra?
Le teorie classiche delle emozioni
Nel 1884 William James e Carl Lange propongono la teoria periferica o del feedback secondo cui lo stimolo emotigeno attiva una serie di reazioni viscerali o neurovegetative percepite dalla persona come un’esperienza emotiva.
Secondo James-Lange, dunque, è l’attivazione fisiologica dell’organismo (arousal) a produrre il vissuto emozionale: la sua frase “Siamo felici perché sorridiamo, e non viceversa” riassume perfettamente l’intera teoria.
La teoria di James-Lange è stata sottoposta a numerose critiche, tra cui assume molto rilievo quella di Cannon, il quale sostiene che gli organi viscerali hanno una sensibilità troppo scarsa e sono troppo lenti per produrre una risposta emozionale specifica in tempi rapidi; nel 1927 Cannon propone la teoria centrale secondo cui lo stimolo è in grado di provocare simultaneamente l’attività del sistema nervoso autonomo e l’esperienza emozionale nel cervello, in particolare nella regione
talamica che funzionerebbe da interfaccia tra le strutture corticali e quelle sottocorticali.
Tale teoria trova riscontri negli esperimenti di Bard su gatti decorticati, i quali sembrerebbero suggerire che la struttura coinvolta maggiormente nell’esperienza emozionale sia proprio l’ipotalamo, per questo motivo è ad oggi conosciuta con il nome Cannon-Bard.
Una delle prime teorie cognitiviste delle emozioni è stata proposta da Magda Arnold agli inizi degli anni Sessanta: secondo questa studiosa,
la prima risposta che produciamo in una determinata circostanza è una valutazione spontanea di essa e in base a come abbiamo valutato la situazione mettiamo in pratica un comportamento di avvicinamento o allontanamento dallo stimolo.

Con la loro teoria cognitivo-attivazionale conosciuta anche come la teoria dei due fattori, nel 1964 Schacter e Singer provano a mettere insieme emozione e cognizione sottolineando l’importanza di entrambe le componenti nell’esperienza emozionale: una componente costituita dall’attivazione fisiologica indifferenziata e una componente cognitiva costituita dalla percezione dell’attivazione fisiologica.
Le due componenti rappresentano, dunque, una condizione necessaria per il manifestarsi dell’emozione, tuttavia non sono sufficienti: è necessario che “venga apposta un’etichetta” all’esperienza vissuta ovvero bisogna attribuirle, cognitivamente, una causa, un significato. Ciò spiegherebbe per quale motivo pur vivendo quello che ci sembra lo stesso pattern di attivazione fisiologica, in una determinata situazione possiamo sentirci impauriti e in un’altra eccitati. Sono proprio le nostre valutazioni ad aiutarci a comprendere meglio ciò che ci accade e, sebbene nella maggior parte dei casi non possiamo controllare le nostre emozioni, una maggiore consapevolezza può aiutarci a controllare il nostro comportamento.
La teoria dei due fattori ha il merito di aver inglobato in una visione integrata i principi delle proposte di matrice neurofisiologica e quelli delle proposte cognitiviste.
La ricerca sulle emozioni non ha perso verve negli anni, anzi sulla scia delle prime teorizzazioni, ci sono stati nuovi confronti e nuovi interlocutori: basti pensare all’acceso dibattito tra:
- Zajonc: sostenitore del fatto che possa esserci emozione senza cognizione;
- Lazarus: padre della teoria degli appraisal, per il quale l’emozione è sempre il risultato di una valutazione cognitiva;
- Joseph LeDoux: neuroscienziato, che parlò della “doppia via” in cui la struttura che svolge un ruolo chiave nell’esperienza dell’emozione è l’amigdala, teoria ampliata e revisionata in anni recenti.

Per quanto queste teorie possano sembrare distanti dalla nostra vita quotidiana e per quanto tali dibattiti possano sembrare mere speculazioni, ciò che accade nella realtà è che non lo sono affatto: ogni giorno della nostra vita prendiamo decisioni, ci relazioniamo, collaboriamo, entriamo in conflitto, risolviamo problemi, in ultima istanza siamo felici o proviamo dolore perché quelle due entità che credevamo opposte – le emozioni e i pensieri – in realtà interagiscono, operano in maniera complementare e si influenzano reciprocamente; tutto ciò è possibile perché vi è comunicazione continua tra le strutture sottocorticali e quelle corticali, tra il sistema nervoso centrale e quello periferico.
Tutte queste teorie, per quanto bizzarre, ragionevoli o superate possano sembrare, ci hanno portato fino a qui, a comprendere che se davvero vogliamo saperne di più sul comportamento umano non possiamo fare altro che avere una visione d’insieme e optare per un approccio integrato.
Dott.ssa L. Ronga
Referenze:
- Clore, G. L. & Ortony, A., Cognition in emotion: Always, Sometimes, or Never? in L. Nadel & R.
- Lane (Eds.) The Cognitive Neuroscience of Emotion (papers from a MacDonald-Pew Conference),
- New York: Oxford University Press, 2000, pp.24-61
- Fox, E., Emotion Science: Cognitive and Neuroscientific Approaches to Understanding Human
- Emotions, London: Palgrave Macmillan, 2008
- LeDoux, J. E., & Brown, R., (2017). A higher-order theory of emotional consciousness,
- Proceedings of the National Academy of Sciences, 114 (10) E2016-E2025
- Schacter, D. L., Gilbert, D. T. & Wegner, D.M., Psicologia generale, Bologna: Zanichelli, 2010