Il Bambino in terapia familiare

Il Sintomo del figlio e la Terapia familiare

Quando i genitori chiamano per un problema del figlio, inevitabilmente, tutta la famiglia si preoccupa e si attiva sulla modalità maggiormente idonea per affrontare tale preoccupazione.

L’idea che il bambino sia portatore di qualche problema, secondo M. Andolfi (2007), lo mette in una posizione di soggetto competente. Tale posizione viene generalmente attribuita ad un adulto e può risultare difficile connotare il bambino in tal senso. Ma se il bambino porta un problema, inevitabilmente all’interno del bambino stesso c’è un’area di competenza, che va vista e letta allargando lo sguardo verso due modalità relazionali, ovvero quella tra:

  • Il bambino ed i suoi genitori;
  • I suoi genitori quando erano bambini e le loro famiglie di origine.

La preoccupazione della famiglia nucleare, ed in particolare quella dei genitori, di fronte ad un problema infantile, spesso dà luogo ad una situazione nella quale la famiglia organizza il suo mondo relazionale intorno al problema del piccolo, creando uno stato di impasse dal quale appare difficile uscire.

In questi casi diviene importante riuscire ad “allargare lo sguardo” non solo al contesto della famiglia nucleare bensì attivare un’osservazione che comprenda anche gli altri possibili contesti di riferimento del bambino e della famiglia per utilizzare risorse meno vincolate e maggiormente accessibili.

Tutto ciò favorisce, secondo Whitaker (1990), Boszormenyi Nagi ((1988) e Andolfi (1977), una rilettura del sintomo all’interno della storia familiare, dei suoi miti e dei suoi conseguenti mandati.

Così facendo, si potranno riscoprire diversi significati di quel problema portato dal bambino, e decentralizzare il piccolo paziente e permettere alla famiglia nucleare di recuperare e attivare le proprie potenzialità.

L’importanza della famiglia quando il bambino si fa portatore di un sintomo

Quando il bambino presenta un problema e la famiglia si trova in difficoltà è possibile constatare che il problema non sono tanto i sintomi presentati quanto i significati ad essi attribuiti. Se il disturbo è visto come qualcosa che non funziona nel bambino, la famiglia cercherà di capire “cosa non va nella sua testa”. Un modo diverso di impostare il problema è quello di vedere il sintomo del bambino come qualcosa che acquista senso all’interno del suo mondo familiare e relazionale.

La famiglia è considerata quel sistema emozionale con storia comprendente almeno tre generazioni. L’uso di una prospettiva trigenarazionale consente di superare una crisi “congelata” sul singolo per affrontare una crisi di sviluppo in un gruppo che ha una storia. Nel guardare le forme in cui si struttura una famiglia è possibile rintracciare alcune configurazioni in cui i sintomi del bambino si possono considerare una risposta coerente e dotata di senso in particolari contesti relazionali. Leggere le configurazioni familiari è utile per comprendere, in chiave sistemica, la forma di organizzazione affettiva della famiglia all’interno della quale collocare i disturbi del bambino.

Terapia Familiare

Il bambino come risorsa nella terapia familiare

Attraverso i sintomi del bambino la famiglia in terapia familiare affronta un passaggio fondamentale per il cammino evolutivo, dalla patologia alla salute (Andolfi, 1995). È come se fosse un “passare attraverso il bambino”. Il sintomo può essere riletto come il tentativo del bambino di poter tornare a vivere una dimensione pienamente infantile.

Quando il bambino entra in terapia come funge da risorsa?

Dalla pancia e fino ai due anni: il bambino entra in terapia sin da quando si trova nella pancia della mamma; parlando così di un “bambino intrauterino”. Parlando con la mamma ed il papà si potrà per cui cogliere quelle che sono la tonalità affettiva della famiglia nei confronti del nascituro. Già prima del concepimento, il bambino svolge importanti funzioni relazionali ed entra nel progetto di famiglia dei genitori. Il figlio, in quanto terzo, modifica lo spazio della coppia necessitando un riassestamento nelle dinamiche dei futuri genitori. Inoltre, il modo in cui la famiglia si muove rispetto alla presenza di un neonato ci parla dei rapporti familiari e di quei processi di identificazione/somiglianza con ciascun membro della famiglia;

Dai due ai cinque anni, l’età prescolare: la presenza dei bambini in seduta, a questa età, aiuta a facilitare la ricostruzione delle storie di sviluppo di ciascun partner a livello intergenerazionale. Alle volte attraverso i bambini si parla anche agli adulti. Il passare attraverso introduce un aspetto legato alla funzione del gioco in terapia. Il gioco rappresenta il linguaggio del bambino, caratterizzato dal pensiero magico, simbolico e metaforico, facendo qualcosa con lui per arrivare anche agli adulti per ristrutturare ciò che in un momento specifico viene vissuto con una modalità rigida e congelata esclusivamente sui sintomi del bambino;

Quando al primo figlio si aggiungono i fratelli: i fratelli rappresentano una grande risorsa in terapia. Bernard diceva “le funzioni che ogni fratello svolge nell’ambito della famiglia dipendono in gran parte da ciò che nel tempo egli acquisisce come suo ruolo e sua identità nell’ambito della vita familiare”. La suddivisione dei ruoli all’interno della famiglia, per quanto riguarda i fratelli, può essere descritta come una sorta di “programmazione”. Si vengono cosi a strutturare, sulla base di tali programmi, differenze rigide nei confronti dei fratelli in termini di qualità affettive, come ad esempio il fratello buono e quello problematico, quello tranquillo e quello agitato, quello buono e quello cattivo etc. Di fronte a tali attribuzioni stereotipate è utile la presenza dei fratelli in terapia poiché permette di “cambiare il programma” dei figli, spostando l’attenzione dal bambino-problema al problema del fratello sano. Il problema del fratello sano, secondo Andolfi, è spesso rappresentabile nell’impossibilità per lui di poter esprimere la parte che è stata attribuita al “malato”, restando prigioniero così di una “normalità” altrettanto disfunzionale quanto rigida.

Le paure-sintomi del bambino che sono anche le paure dell’adulto

La paura è un’emozione primitiva, normale e presente nell’essere umano. Quando si presenta una paura nel bambino in qualche modo questa rappresenta una sorta di spaccato delle paure degli adulti nel divenire famiglia. Andolfi dice che “non esiste un bambino che ha paura ma un bambino a cui la paura è stata trasmessa”. Allargando il campo di osservazione, al trigenerazionale, ci possiamo rendere conto di tante altre paure provenienti dalle storie degli adulti.

È quindi necessario trovare i nessi tra le paure del bambino e le paure antiche di altri familiari.